Gli abbonamenti non sono tutti uguali
Intanto si discute, di nuovo, sull'impatto che gli abbonamenti hanno (e avranno) sul settore e sulla creatività degli sviluppatori.
Sono uscite le recensioni di Prince of Persia: The Lost Crown, ultimo videogioco di Ubisoft, e il parere generale è stato molto positivo. Mentre scrivo questa introduzione, la media voto dalla critica è di 86: uno dei migliori risultati ottenuti da un videogioco sviluppato e pubblicato da Ubisoft da tempo. Assassin’s Creed Mirage ha una media voto di 76, mentre Avatar: Frontiers of Pandora di 72 e The Crew Motorfest di 76, per citarne alcuni.
In altre parole, il nuovo Prince of Persia è un videogioco ritenuto ottimo, prodotto da una società che nell’ultimo periodo è raccontata come fiacca, stanca e in carenza di idee. Eppure, eccolo lì: un videogioco che piace.
Cos’è successo, insomma?
Niente: è solo che le persone che hanno creato Prince of Persia: The Lost Crown, che lavorano allo studio di Montepellier di Ubisoft, sono diverse da quelle che hanno fatto Assassin’s Creed Mirage o The Crew Motorfest o Avatar: Frontiers of Pandora. Persone diverse creano videogiochi diversi, con un impatto diverso e con esiti, anche, diversi.
Non dovrebbe sorprendere. Nel mondo dei videogiochi, però, questo aspetto è sottovalutato.
Lo è soprattutto perché, più o meno da sempre, le grandi società hanno cercato di far aderire il loro marchio a quello dei videogiochi. Succedeva ai tempi di Atari - quando il buon Warren Robinett s’è inventato il primo “easter egg” (o la sua “firma” come lui preferisce chiamarlo) pur di far trovare il suo nome a chi giocava Adventure su Atari 2600 - e succede ancora oggi.
Mentre nei film spesso vengono considerati i registi (“Dal regista di Film X” è spesso usato per richiamare l’attenzione sulla nuova produzione) o gli attori e le attrici principali, nei videogiochi si guarda allo studio di sviluppo più in generale; o all’editore, addirittura.
Così mentre per i film molte persone possono sapere che c’è James Cameron o Greta Gerwig alla direzione, invece chiedere chi, per esempio, ha diretto un qualunque videogioco è una missione molto difficile - a meno che non si chiami Hideo Kojima, che però rappresenta un’anomalia perché a sua volta “Hideo Kojima” è diventato un marchio; che funziona grazie a tutte le persone che stanno attorno a lui da tanti anni.
Ciò accade continuamente come se lo studio di sviluppo o l’editore fossero un soggetto inamovibile e sempre uguale nel corso del tempo.
Naturalmente ciò è falso: i co-fondatori se ne vanno oppure cambia un importante sceneggiatore oppure una creatrice di una serie se ne va, e così via.
Si pensi, per esempio, a com’è cambiato - sotto molti aspetti - God of War Ragnarok da God of War (2018) perché nel ruolo di game director al posto di Cory Barlog c’è stato Eric Williams: idee, esperienze e mentalità diverse, com’è normale che sia. Figuriamoci se prendessimo in considerazione l’intera Sony Santa Monica.
Così come sta uscendo un altro Plants vs Zombies, videogioco del genere “tower defense” - dove bisogna difendere la propria base usando, in questo caso, le piante, ciascuna con abilità diverse, per difendersi da un’orda di nemici, in questo caso gli zombi - ma il creatore originale, George Fan, non lavora più nello sviluppatore della serie, PopCap, da molti anni.
Il marchio dell’editore e dello sviluppatore è un elemento molto meno rilevante perché, di fatto, ci dice meno di quanto potremmo pensare su quanto possa cambiare un videogioco, anche della stessa serie, da un anno all’altro; ma per ragioni di marketing il marchio dell’editore e dello sviluppatore è ciò che vuole essere infilato nella testa: esistono i videogiochi di Naughty Dog, di Bethesda, di Nintendo, di Double Fine, di Remedy Entertainment. Mentre mai penseremmo di dire “Oh, al cinema c’è il nuovo film di Paramount, dobbiamo vederlo!”
Comprendo che è difficile fare altrimenti. Sarebbe complicato pensare di stilare un lungo elenco di persone ogni volta che viene presentato un videogioco o se ne parla: io per primo, quando devo condividere l’annuncio di un nuovo videogioco, faccio riferimento allo studio che lo sta sviluppando e, se è diverso, all’editore. Però è importante, come primo passo in una direzione meno opaca, comprendere che esiste questa situazione: le persone negli studi cambiano e con essi i videogiochi che quegli studi faranno in futuro.
Aggiungo che nel farlo ci perdiamo - come già scrissi in passato - le storie personali.
A dirigere i lavori su Prince of Persia: The Lost Crown è stato Mounir Radi; la cui carriera in Ubisoft lo ha visto ricoprire il ruolo, per esempio, di lead designer in ZombiU e senior game designer in Valiant Hearts: The Great War. E prima ancora Radi è stato game designer in Rayman Raving Rabbids 2 e level designer in Ghost Recon Advanced Warfighter 2. Molti anni dopo, è game director di un nuovo videogioco della serie Prince of Persia.
Ora che lo sapete, magari la prossima volta che vedete il nome di Mounir Radi potrebbe venirvi in mente che ha contribuito significativamente alla produzione di un videogioco ben riuscito (e che magari vi è pure piaciuto).
Radi, però, è solo un esempio. Sono certo che in qualunque studio di sviluppo ci sono dozzine di persone come lui, la cui presenza o meno fa la differenza. Anche se il nome sulla copertina è lo stesso di prima.
Massimiliano
Se c’è una cosa che sta dividendo le società sul futuro dei videogiochi, questa cosa sono gli abbonamenti. Non solo per le modalità con cui approcciarli - o se farlo - ma anche sull’impatto che un eventuale futuro in cui diventassero la principale modalità di fruizione del videogioco avrebbe sulla creatività stessa.
Swen Vincke, amministratore delegato di Larian Studios (Baldur’s Gate 3), ha le idee chiare. “Qualunque sia il futuro dei videogiochi, il contenuto sarà sempre il punto principale”, ha scritto su X (ex Twitter). “Ma sarà molto più difficile avere dei buoni contenuti se gli abbonamenti diventeranno il modello dominante e un gruppo selezionato deciderà cosa arriverà sul mercato e cosa no. La via diretta dagli sviluppatori ai giocatori è l’unica strada”.
Per Vincke, “in un mondo simile per definizione la preferenza del servizio su abbonamento determinerà quali giochi vengono fatti. Credetemi - non lo volete”.
(Già oggi, comunque, la cosiddetta “platform economy” influenza non solo quali videogiochi vi trovate davanti agli occhi su Steam o su eShop, per via di come gli algoritmi elaborano i contenuti suggeriti, ma anche che tipo di videogiochi vengono prodotti in base alle tendenze, alle etichette di maggior successo e ad altri fattori meramente commerciali. Certamente gli abbonamenti esasperano questo aspetto.)
Anche Sony si è schierata apertamente contro a questo modello, ritenendo che minerebbe la possibilità di produrre i grandi videogiochi per cui PlayStation è apprezzata, come The Last of Us o God of War.
“Il livello di investimento di cui abbiamo bisogno di fare nei nostri studi non sarebbe possibile e pensiamo che l’impatto sulla qualità dei giochi che realizziamo non sarebbe qualcosa che i giocatori vogliono”, disse l’amministratore delegato di Sony Interactive Entertaiment, Jim Ryan, in un’intervista del 2022 a Gamesindustry.
In entrambi i casi, mi preme sottolineare che tanto Larian Studios quanto PlayStation godono di un successo tale dei loro videogiochi da trovarsi in una posizione di rilievo. Baldur’s Gate 3 ha venduto 2,5 milioni di copie mentre si trovava in accesso anticipato, e Marvel’s Spider-Man 2 ha venduto in cinque giorni 11 milioni di copie. In altre parole: i videogiocatori, nei loro casi, sono disposti a pagare il prezzo pieno, pur di giocare a queste esperienze.
Azienda che vai, abbonamento che trovi
Chi sceglie di investire in un abbonamento, fra le società, non ha però un approccio unico.
La stessa Sony ha diversificato PlayStation Plus in tre piani: Essential, Extra e Premium, con gli ultimi due che offrono un catalogo (anche in streaming nel caso di Premium) di videogiochi PlayStation selezionati. Nel caso di Sony si tratta soprattutto del cosiddetto “back catalogue”, ossia di videogiochi che sono usciti sul mercato da mesi se non anni. Un modello che, peraltro, piace anche all’amministratore delegato di Take-Two, Strauss Zelnick, che nel 2022 disse: “Può potenzialmente essere ottimo per le proprietà in catalogo, la vendita di proprietà che sono sul mercato da tempo e il cui prezzo è stato ridotto. Può avere un senso economico offrirli in un abbonamento”. (Anche qui: Take-Two pubblica giochi di successo come NBA 2K e Grand Theft Auto.)
L’eccezione in PlayStation Plus l’hanno fatta le terze parti: Fall Guys e Stray sono usciti direttamente su PlayStation Plus e lo stesso farà Foamstars, videogioco online competitivo che sarà disponibile dal 6 febbraio nel catalogo prima di passare a essere venduto a 29,99 euro dal 5 marzo.
Microsoft è quella che ha investito di più in un servizio su abbonamento: su Game Pass arrivano al primo giorno i videogiochi realizzati dagli studi interni, ma ha convinto anche alcune terze parti, come SEGA, a portare alcuni dei loro videogiochi direttamente al lancio sul servizio, come i titoli della serie Like a Dragon.
Nintendo ha Nintendo Switch Online. Anche in questo caso l’accesso alla modalità online è il primo motivo per sottoscrivere questo abbonamento - che costa molto meno degli altri, 19,99 euro all’anno - ma la versione “Nintendo Switch Online + Pacchetto Aggiuntivo”, che costa 39,99 euro all’anno, include (non in esclusiva) anche i contenuti aggiuntivi di Animal Crossing New Horizons, Splatoon 2 e Mario Kart 8 Deluxe. A cui va aggiunto un catalogo di selezionati videogiochi classici per piattaforme come SNES, Nintendo 64 e Mega Drive. Ma anche Nintendo sta sperimentando: F-Zero 99 è accessibile solo su abbonamento.
Ubisoft ha il suo abbonamento, Ubisoft+, che di recente ha diviso in due:
Ubisoft+ Premium (17,99 euro al mese) garantisce l’accesso dei nuovi videogiochi fin dal primo giorno (a volte anche in anteprima) anche in edizioni “premium”, se presenti, e sarà disponibile su Xbox, PC e Amazon Luna;
mentre Ubisoft+ Classic permette di giocare a videogiochi meno recenti ed è accessibile su PC (a 7,99 euro) o tramite PlayStation Plus Extra o Premium (senza costi aggiuntivi).
Lo stesso vale per Electronic Arts, che propone i suoi videogiochi su EA Play. Nella versione Pro è possibile accedere ai videogiochi dell’editore dal giorno del lancio, a volte anche in anticipo.
Apple propone Arcade. Alcuni videogiochi, come Sonic Dream Team o Cypher 007, sono esclusivi; altri sono versioni migliorate e senza pubblicità di videogiochi già accessibili su iOS. Anche Netflix si muove nella stessa direzione.
C’è poi il sottoinsieme di servizi per lo streaming, come Nvidia GeForce Now, il cui abbonamento permette di giocare in cloud i videogiochi già acquistati altrove, come Steam o Epic Games Store.
Diverso da musica e film
Nel mondo della musica e dei contenuti audiovisivi il sistema su abbonamento è stato, in un certo senso, imposto dal successo commerciale ottenuto, in un caso, da Spotify e, dall’altro, da Netflix. Chi è arrivato dopo - Apple Music/Apple TV+, Amazon Prime Music/Prime Video, Disney+, ecc - ha applicato lo stesso modello, ma per il proprio catalogo. Nel caso della musica, poi, gli abbonamenti hanno risollevato l’industria da un periodo di forte calo dei ricavi.
Nel caso dei videogiochi, invece, non solo c’è una spaccatura fra chi sostiene che questo modello commerciale possa avere un futuro e chi no; ma ci sono anche forme e versioni e approcci che sono quasi personalizzati in base all’editore di turno: c’è chi, come Microsoft, sceglie di andare “all in” e puntarci tutto; chi come Sony o Nintendo che invece preferisce un approccio più cauto. E un po’ come per Baldur’s Gate 3 ed esclusive PlayStation, tanto dipende dal posizionamento dei propri videogiochi: Xbox faticava a vendere i suoi videogiochi; mentre è difficile trovare un videogioco di Super Mario a prezzo scontato.
Ci troviamo di fronte, oggi, a un approccio molto diversificato:
c’è il modello ibrido di Sony, dove ai videogiochi nuovi a prezzo pieno viene affiancata la possibilità di accedere ai videogiochi meno recenti a un prezzo mensile (anche di prime parti, aspettando un po’ di tempo);
c’è quello di Ubisoft ed Electronic Arts, dove sullo stesso piano dell’acquisto convenzionale viene messo l’abbonamento per giocare ai videogiochi principali e a quelli vecchi;
c’è quello su cui insiste Microsoft, dove l’abbonamento è parte integrante della proposta di valore del suo ecosistema (soprattutto il piano Ultimate per giocare anche in streaming);
e infine c’è Nintendo, dove l’abbonamento è molto laterale, quasi insignificante oggi, rispetto al modello storico.
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Cosa dice il “mercato”
Al di là delle singole decisioni, come stanno andando gli abbonamenti a oggi? Ovviamente sono ancora una minoranza dei ricavi e degli acquisti, ma più di preciso?
Negli Stati Uniti sono stati il 10% dei guadagni del settore nel 2023 (ossia 5,7 miliardi di dollari) e la crescita degli abbonamenti è piatta, ha precisato Mat Piscatella, fondatore di Circana, società di analisi di mercato. (Nell’analisi di Circana non ci sono i numeri di Nintendo Switch Online perché Nintendo non condivide i numeri sul digitale.)
“Gli abbonamenti sono stati più un’aggiunta che un sistema che ha cannibalizzato [quello esistente] e offrono ai giocatori, agli sviluppatori e agli editori più scelta su come giocare o come arrivare sul mercato”, ha aggiunto. “Le preoccupazioni sul tema sono abbastanza inutili”.
In Germania, il più grande mercato europeo per spesa nei videogiochi, nel 2022 gli abbonamenti hanno generato 866 milioni di euro di fatturato, con una crescita annuale del 20%. In questo dato c’è ogni forma di abbonamento, da quello per giocare online a quelli per accedere a un catalogo di videogiochi; quindi il numero sarebbe più basso se valutassimo solo Game Pass e simili, ma teniamolo comunque. Nel 2022 complessivamente in Germania sono stati spesi 9,87 miliardi di euro; quindi gli abbonamenti sono stati l’8,7% dei guadagni.
In Francia nel 2022 sono stati generati 5,531 miliardi di euro dai videogiochi. In totale per abbonamenti e servizi di streaming sono stati spesi 683 milioni di euro, cioè il 12,3%.
In attesa dei dati relativi all’andamento del mercato europeo nel 2023, che saranno pubblicati nei prossimi mesi, siamo ancora lontani da quel futuro in cui gli abbonamenti potrebbero diventare il modello dominante che commentava Vincke.
Cosa manca?
Tralasciando se sia il caso o meno di auspicare una simile situazione, cosa sta trattenendo oggi i videogiocatori dal passare agli abbonamenti? Per Philippe Tremblay, direttore degli abbonamenti di Ubisoft, è necessario che i videogiocatori “siano a loro agio” a non possedere più i videogiochi.
“Una delle cose che abbiamo visto è che i videogiocatori sono abituati, un po’ com’era per i DVD, ad avere e possedere i loro giochi”, ha detto a Gamesindustry. “È questo il cambiamento nei consumatori che deve prendere forma. Si sono abituati a non possedere la loro collezione di DVD o CD. Questa è una trasformazione che [nei videogiochi] sta avvenendo più lentamente”. In ogni caso, Tremblay ha evidenziato che, da quando ha debuttato, “milioni” di utenti hanno usato Ubisoft+.
Il passaggio al digitale sta creando notevoli problemi alla preservazione del videogioco: se spariscono dai negozi digitali videogiochi usciti solo in formato digitale, recuperarli è molto più complesso se non impossibile.
L’idea che i videogiocatori debbano abituarsi a non possedere più i loro videogiochi, quindi, non è di per sé qualcosa in cui sperare fortemente, secondo me.
Con gli abbonamenti, però, viene introdotta l’idea del “noleggio perenne” dei titoli e limitato ulteriormente l’accesso: ancora se hai scaricato il gioco, quando esce dal catalogo non puoi più giocarci.
Gli abbonamenti sono una trappola: una volta che inizi a pagare, se vuoi continuare ad accedere a quei videogiochi, allora devi continuare a pagare; se non lo fai, smetti di poter giocare a quei videogiochi. “In mano” non ti rimane niente.
O magari, per scelta di un editore, un videogioco viene rimosso dal catalogo. Lo ha fatto spesso Rockstar Games con GTA V in questi anni, per esempio, alternando momenti di presenza su Game Pass ad altri in cui bisognava acquistarlo in modo convenzionale. Il videogioco a cui stavi giocando, da un giorno all’altro, non c’è più nel catalogo.
C’è poi un’altra questione.
Abbiamo già visto cosa succede quando si sceglie di puntare su un vantaggio che sembra evidente nel breve termine, che fa guadagnare pubblico, senza pensare alle conseguenze. Mi riferisco alla proposizione dei videogiochi gratuiti su mobile: non si è più tornati indietro e persino Nintendo non è riuscita a vendere Super Mario Run per 10 euro. Con le storture, come le microtransazioni e i meschini metodi per spingere gli utenti a pagare, che sono nate di conseguenza.
In altre parole: convinci le persone che l’abbonamento sia meglio e allora sarà più complicato chiedere loro di pagare quegli stessi videogiochi a prezzo pieno o anche solo scontato.
Ma d’altronde nessun modello è perfetto e, così per dire, la mancanza di crescita del pubblico console ha fatto sì che il prezzo dei videogiochi non potesse che aumentare a ogni generazione: se il pubblico non aumenta, per sostenere costi più alti l’unica soluzione possibile è far salire i prezzi. Insomma, nemmeno oggi la situazione è priva di rischi, di complessità e di storture.
In un momento storico, però, in cui l’enorme quantità di videogiochi già crea delle grosse difficoltà commerciali, creative e industriali e in cui il costo di sviluppo è così alto che è sempre più rischioso persino realizzare videogiochi basati su licenze molto forti - come i supereroi - l’idea che gli abbonamenti siano un futuro “certo” per i videogiochi mi sembra, a oggi, poco giustificabile.
Saranno qualcosa? Sicuramente. Saranno tutto? Più difficile.
Le altre notizie, in breve
Altri licenziamenti
Il gruppo Thunderful ha annunciato che taglierà il 20% del suo personale, ossia circa cento persone. In una nota la società ha ammesso di aver investito più del necessario negli anni scorsi e che tali investimenti “si sono dimostrati insostenibili considerato l’attuale situazione dell’industria”. Thunderful gestisce diversi studi di sviluppo, fra cui Jumpship (che ha lavorato a Somerville).
Ci sono stati anche ulteriori licenziamenti all’interno del gruppo svedese Embracer. Questa volta in Lost Boys Interactive, dove sono state licenziate 125 persone. Lo studio è stato acquisito da Gearbox nel 2022 e ha contribuito a giochi come Borderlands 3 e Tiny Tina’s Wonderlands.
PTW - che soprattutto aiuta altre aziende nello sviluppo, per esempio fornendo servizi di localizzazione, controllo qualità oppure contribuendo alla trasposizione su altre piattaforme - ha licenziato 45 persone. PTW ha collaborato, per esempio, a Starfield, Super Mario Bros. Wonder ed Elden Ring.
Behaviour Interactive (Dead by Daylight) ha licenziato 45 persone. Mentre un numero imprecisato di persone è stato licenziato da Pixelberry, che fa parte del gruppo Nexon e ha sviluppato videogiochi mobile come High School Story.
CI Games ha licenziato il 10% del personale, citando la preservazione della “stabilità” della società come ragione. Sono coinvolti anche due studi di sviluppo che fanno parte del gruppo: Underdog (Sniper Ghost Warrior) e Hexworks (Lords of the Fallen).
Netspeak Games (Sunshine Days) ha licenziato 25 persone. In una nota sul sito ufficiale, l’amministratrice delegata, Krystal Gemma, ha parlato di costi per l’acquisizione degli utenti in aumento e la mancanza di finanziamenti aggiuntivi.
Infine, Wimo Games ha chiuso. Lo studio ha creato vari videogiochi per la realtà virtuale, come Battle Bows e Micro Machines: Mini Challenge Mayhem. Era stato fondato nel 2021 ed era composto da 35 dipendenti.
La battaglia legale fra Apple ed Epic Games è finita
La Corte Suprema ha deciso di non ascoltare gli appelli che sia Apple sia Epic Games avevano presentato per la decisione con cui, ad aprile 2023, un giudice aveva confermato la sentenza di due anni prima, quando era stato deciso, per farla breve, che Apple non ha un monopolio sull’App Store, ma che doveva permettere agli sviluppatori di includere collegamenti a sistemi di pagamento fuori dall’App Store. Apple aveva fatto ricorso proprio su questo punto; mentre Epic Games, be’, su tutto il resto.
Di fatto Epic Games ha perso su tutta la linea. L’amministratore delegato Tim Sweeney ha definito l’esito “triste” per tutti gli sviluppatori. La vicenda legale risale a metà del 2020, quando Epic Games ha incluso in Fortnite, sia su iOS sia su Android, un sistema di pagamento che eludeva il 30% dovuto ad Apple e Google; e così facendo violava i termini accettati. Da lì è partita una causa legale, con cui Epic Games ha accusato sia Apple sia Google di pratiche anticoncorrenziali. Nessuna novità rispetto alla disponibilità di Fortnite su iOS, mentre Apple ha già iniziato ad attivarsi per permettere agli sviluppatori di inserire metodi di pagamenti alternativi ed esterni: facendo pagare il 27% di commissione.
C’è stato un evento Xbox
Al Developer Direct Obsidian Entertainment ha mostrato Avowed, nuovo gioco di ruolo d’azione previsto per l’autunno. Soprattutto, Ninja Theory ha annunciato che Senua’s Saga: Hellblade II uscirà il 21 maggio e solo in digitale. Presentato anche Indiana Jones e l’Antico Cerchio, in sviluppo presso Machine Games, che è genericamente previsto entro la fine dell’anno. Sarà prevalentemente in prima persona.
I videogiochi più venduti in Europa nel 2023
EA Sports FC 24 è stato il videogioco più venduto lo scorso anno in Europa secondo l’elaborazione di GSD riportata da Gamesindustry. Il secondo è stato Hogwarts Legacy, seguito da FIFA 23. Complessivamente sono stati venduti l’1,7% di videogiochi in più del 2022; di questi, il 34% è uscito nel 2023, mentre gli altri sono stati pubblicati negli anni precedenti.
La console più venduta è stata PlayStation 5, con una crescita annua del 177%, davanti a Nintendo Switch (-10%) e Xbox Series X|S (-18%). Anche le vendite di PlayStation 4 sono molto aumentate (+671%) a dimostrazione di una voglia di console PlayStation che nel 2022 non era stata esaudita e quindi ha coinvolto anche la console precedente, dove sono comunque accessibili videogiochi come Horizon Forbidden West, God of War Ragnarok e Gran Turismo 7.
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Sul buon risultato di Prince of Persia e sull'autorialità sarebbe da aprire una riflessione che si dipana nel corso di tutta la storia del videogioco. Un tempo i giochi erano solo del publisher, poi arrivò Robinette e "spezzò le catene della schiavitù degli autori", che iniziarono a prendere il sopravvento, per cui i giochi erano di Geoff Crammond, Sid Meyer, Lord British, Jeff Minter, David Braben & Co. Il publisher passava in secondo piano, davanti a questi nomi, ma anche in questro caso si trattava di mettere comunque un'altra etichetta, perchè a parte alcuni rari casi, dietro il gioco non c'era solo il creatore, ma tutta una squadra di lavoratori che si occupavano del codice, della musica, della grafica, del testing. Un po' come nel mondo delle produzioni cinematografiche, il mondo delle produzioni dei videogiochi non può essere etichettato con semplicità. Oggi siamo ritornati al publisher, per cui in gioco è Ubisoft, EA e via discorrendo. La dualità tra autorialità e produzione rimane sempre in essere. Hideo Kojima fu criticato per aver detto che quando ai suoi giochi mette l'etichetta "A HIDEO KOJIMA GAME" lui si occupa di tutte le fasi, ma non nel senso che fisicamente fa tutto, ma che essendo l'autore del gioco, ha la completa supervisione di ogni suo elemento. I giochi sono fatti dalle persone, sono creati dalla mente di una persona o di un gruppo, sono costruiti da persone e le persone possono lavorare e pensare in maniera diversa all'interno della stessa casa di produzione. Ubisoft ha moltissimi dipendenti e sicuramente ha delle politiche aziendali che prevedono protocolli precisi per creare i videogiochi, ma poi la realizzazione passa dalle mani e dalle menti di persone con sensibilità diverse, che possono creare qualcosa di completamente diverso rispetto alle aspettative iniziali, perché infondono nel prodotto comunque una parte del loro vissuto. Sono contento che Prince of Persia abbia avuto un buon riscontro, perché è un franchise che ho sempre amato e il ritorno alle origini ha dato ragione a chi l'ha creato.
Ciao. Sono stati veramente molto interessanti questi articoli. Ottimo che hai specificato che chi è contro i servizi in abbonamento gode di una posizione dominante in questo periodo.