Raccontare storie di videogiochi
La domanda delle domande: cosa definisce l'etichetta di "gamer"? Quali sono le caratteristiche che deve rispettare una persona che viene definita tale?
L'Entertainment Software Association, associazione che organizza l'E3 e che negli Stati Uniti rappresenta le aziende di videogiochi, ha diffuso i dati su chi gioca ai videogiochi negli Stati Uniti: sono 215,5 milioni di persone (trovi il rapporto qui se ti interessa). Viene definito "gamer" chiunque giochi almeno un'ora alla settimana.
Mi chiedo: questo valore quantitativo cosa ci dice? Innanzitutto, che praticamente essere "gamer" è una porta girevole: in base a quanto tempo dedichi ai videogiochi puoi essere un "gamer" un mese e non esserlo un altro, solo perché hai avuto meno tempo.
In questo momento della mia vita, io non sarei un "gamer" per l'ESA: perché gioco meno di un'ora alla settimana. Eppure, scrivo questa newsletter ogni settimana e leggo sui videogiochi ogni giorno e parlo di videogiochi con le persone ogni giorno, più volte al giorno.
Nessuno mi definirebbe vegetariano solo perché mangio uova almeno una volta alla settimana.
La definizione diffusa di "gamer", che tendenzialmente deriva dai rapporti delle associazioni come l'ESA o l'italiana IIDEA, si rivolge alle istituzioni - per far percepire che c'è parecchia gente interessata al settore - e alle stesse aziende che vengono rappresentate dalle associazioni e a cui serve un riferimento di più o meno quante persone siano monetizzabili, cioè a cui possono essere venduti prodotti videoludici (anche attorno al videogiochi, vale a dire merchandising, per esempio).
La differenza la fa la consapevolezza di ciò che il videogioco può essere e del tipo di cultura, industria e socialità che può essere veicolata attraverso le peculiarità del videogioco.
Un'analisi quantitativa come le ore settimanali serve a coinvolgere il maggior numero possibile di persone; e in un settore ossessionato dai volumi poter vantare una costante crescita annuale è essenziale per potersi gonfiare il petto.
Molte delle persone che vengono definite "gamer", sono in realtà G.I.N.O, cioè Gamers In Name Only; chi può essere definito "gamer", ma solo nel nome. Quelle persone che consumano il videogioco - su qualunque piattaforma e in qualunque forma - ma non si interessano del videogioco in senso più ampio. Proprio perché l'etichetta di "gamer" è riferita al solo consumo.
Una persona definita "gamer" però può essere inquadrata, analizzata e monetizzata: non è una valutazione di merito né di conoscenza, ma solo di marketing.
Forse è il caso che ce la togliamo dalle scatole.
Massimiliano
Errata corrige
Nella scorsa newsletter, ho scritto che Diablo: Immortal arriverà nei prossimi mesi su PC. È sbagliato: è già disponibile.
Scusa per l'errore.
Un breve sondaggio
Su Twitter ho chiesto: cosa preferiresti che fosse questa newsletter?
Un insieme di vari approfondimenti medi, più o meno come la sto organizzando da mesi, oppure che si concentrasse su uno o due approfondimenti estesi (anche atemporali) ogni settimana?
Puoi votare qui e il tuo voto mi aiuterebbe tanto a capire come impostare il futuro di Insert Coin.
Ora passiamo alle cose della settimana.
Storie di Videogame: intervista ad Andrea Porta
Da alcuni mesi c'è un nuovo podcast di videogiochi in città: si chiama, appunto, Storie di Videogame ed è ideato da Andrea Porta.
Nelle puntate racconta le vicissitudini, spesso complicate, che hanno portato alla nascita di giochi come Bioshock, The Witcher, Mass Effect e Assassin's Creed.
Puoi seguire il podcast su Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e Amazon Music.
Massimiliano: Come organizzi una puntata? Da dove cominci?
Andrea Porta: La ricerca è parte stessa di come poi la puntata viene strutturata. Io parto dal voler parlare di un gioco, per motivi disparati. All’inizio era solo il mio gusto o qualcosa che conoscevo bene; più di recente mi arrivano tante richieste e varie puntate sono state fatte proprio in risposta a delle richieste.
Parto dal prodotto, inizio a informarmi sulla storia dello sviluppo del prodotto e da lì capisco che puntata farò: se vedo che la storia si presta a essere sceneggiata, allora faccio una puntata tradizionale; se vedo che la storia è più scarna, allora faccio un “Off the record”, formato più easy dove faccio una chiacchierata sul prodotto.
È tutto in evoluzione, non parto da subito con un’idea precisa a meno che non conosca già parti della storia, com’è stato, per esempio, con Silent Hill.
Dalla prima puntata a oggi cos’hai imparato?
Ho imparato che la ricerca è un processo tentacolare, a cui non puoi mettere dei paletti.
Per esempio, già per la seconda puntata a cui ho lavorato, quella su Tomb Raider, durante la ricerca sono incappato in un libro scritto da una persona che lavora a Derby e ha intervistato le persone del team originale. È stata una miniera d’oro di informazioni: così tante che non sono riuscito a metterle tutte nella puntata perché sarebbe diventata infinita.
È un chiaro caso dove il tempo di ricerca si allunga. Spesso succede che preparo una scaletta e prevedo un piano b, un piano c, un piano d; una delle prime cose che ho imparato, quindi, è non dire “la prossima puntata sarà questa” perché poi può succedere qualcosa che cambia i piani.
[Dalla prima puntata] C’è stato un grande avanzamento tecnico. Sono partito senza mai aver fatto un podcast, anche se avevo lavorato su montaggi audio e video professionali; ma il podcast è una cosa diversa: bisogna affinare l’audio, inserire gli effetti audio. Sono tutte cose che maturano nel tempo.
Per creare le varie puntate fai affidamento su varie fonti, dai talk della Game Developers Conference alle interviste rilasciate. Come le scegli e soprattutto quando decidi di fermarti?
Dipende da che fonti sono. Se sono fonti dirette, come un’intervista a uno sviluppatore, spesso trovo informazioni di prima mano e che posso considerare verificate. Sebbene qualche volta capita, soprattutto per i giochi vecchi, che ci possano essere contraddizioni e incoerenze su come e quando è successa una certa cosa. A quel punto, allora, cerco conferme da ulteriori fonti; e se non riesco a trovarle, ometto le informazioni di cui non sono certo.
Delle puntate complesse da scrivere sono state quelle su Bioshock perché ci sono tanti eventi che avvengono contemporaneamente, sono coinvolti più studi e ci sono vicende umane molto delicate; quindi è servito incrociare le informazioni date alla stampa, le chiusure.
In questi casi cerco di andare il più a fondo possibile, mentre se la storia è lineare, alla terza o alla quarta conferma di un fatto posso essere tranquillo.
Dopo la puntata su Cyberpunk 2077 mi ha scritto il PR italiano di CD Projekt per farmi i complimenti perché avevo dato delle informazioni corrette: non me lo aspettavo, è stata una sorpresa e mi ha confermato che avevo fatto un buon lavoro. Io una storia raccontata così non l’avevo mai trovata e quindi mi ha fatto piacere trovare un endorsement da chi era dentro quando quelle cose succedevano.
Ti è mai capito di iniziare una ricerca e di accorgerti che non avresti trovato abbastanza informazioni su un gioco?
Succede, sì. C’è sempre l’”Off the record” che mi salva per una puntata anche di cinque minuti, però qualcosa ci vuole comunque. Quando succede, lascio fermo il contenuto e mi occupo di altro. Per esempio, sto cercando di fare una puntata su S.T.A.L.K.E.R., ma la sto lasciando un po’ in pausa perché non trovo sufficienti informazioni.
Ci sono stati casi in cui hai ammorbidito alcuni aspetti o ne hai romanzati altri?
I dialoghi nell’80% delle volte sono immaginati, mi sembra palese: racconto degli eventi realmente accaduti, a cui magari è stato fatto accenno in un’intervista. Quel dialogo lo immagino completamente.
Ci sono altri casi in cui questa cosa la inserisco con una citazione dell’autore.
Sul romanzare gli eventi mai: racconto quanto viene raccontato. Poi se è stato romanzato all’origine, dipende da chi ha raccontato la storia. Ammorbidire neanche. Io tengo una narrazione il più possibile asettica e cerco di non dare giudizi perché non è il ruolo del podcast né il mio. Ognuno poi tira le sue conclusioni.
Quanta parte della puntata è scritta o quanta è improvvisata nel momento in cui registri?
Nel caso delle puntate principali, zero improvvisazione: è tutto scritto precedentemente. Può succedere che durante la registrazione mi renda conto che una parte non funzioni bene e quindi che faccia al volo delle modifiche, ma sono cose molto piccole.
Nel caso degli “Off the record”, ho di fronte una pagina di testo con alcuni punti da trattare e vado a braccio.
Ti sei ispirato ad altri podcast?
Ne ho ascoltati talmente tanti che è inevitabile che le cose siano, in qualche modo, penetrate. Il podcast non faceva parte dell’idea originale, che ho avuto nel cassetto per tanto tempo. Ho cambiato idea quando durante la pandemia ho ascoltato molti podcast e ho capito che tipo di narrazione si potesse fare: è stata un’illuminazione. Non c’è però un podcast preciso a cui ho fatto riferimento.
È normale che quando si parta con questi progetti ci siano tante idee iniziali e che, quando la scaletta iniziale si esaurisce, si passi ad altri contenuti, magari più trasversali. Gli stessi “Off the record” sono nati per consentire più continuità. Come gestisci questo aspetto?
Io affronto una sfida con questa cosa: devo mediare il progetto con il mio lavoro quotidiano a tempo pieno. Gli “Off the record” sono anche una risposta a questo.
Quando ho cominciato avevo parlato di fare una puntata al mese, ma poi mi sono reso conto che diventando più pratico con il montaggio i tempi di produzione si sono accorciati e mi è venuta l’idea di puntate più dirette e più facili da montare.
Relativamente alla situazione attuale, quindi una puntata ogni 7-10 giorni, è sostenibile. Se sentissi il bisogno di fare una pausa, lo farei serenamente: non avrei problemi a farlo in futuro se ne sentissi la necessità.
Per le idee, più vado avanti e più ne ho. Ora sto lavorando a un nuovo formato per le puntate, che vorrebbe parlare di uno sviluppatore ben specifico, ma non voglio farlo con i grandi sviluppatori.
Mi piacerebbe andare a pescare fra gli sviluppatori italiani, che lavorano in Italia o all’estero, e che vogliano raccontarsi. Non sarà un’intervista, perché non mi piace ascoltarla in podcast, ma un racconto a due voci: io faccio la voce narrante che collega gli eventi e poi c’è lo sviluppatore che si racconta. Non una serie di domande e risposte, ma un racconto.
Mi sono reso conto che tanti di quelli che ascoltano il podcast stanno studiando o in futuro vogliono entrare nel settore. Questo tipo di puntate potrebbe aiutare queste persone a capire che strada percorrere.
Di recente hai aperto alle donazioni. Qual è stata la risposta di chi ti segue?
Molto buona e ne sono felice. La chiave credo che sia stata essere trasparente sul perché l’ho fatto e cosa faccio con quelle donazioni. Ho creato una puntata, che si chiama “Update”, dove chiacchiero dello stato del podcast, quanti lo seguono, quanti lo ascoltano: non avendo prospettive commerciali posso permettermi di essere trasparente sui numeri. Credo che questa cosa sia piaciuta molto.
Io il tempo nel podcast ce lo metto volentieri e non voglio essere pagato per questo.
Che percentuale di persone che ti segue ha donato?
Circa il 10%.
È una percentuale molto alta.
Facendo marketing, la definirei una retention ottima. Sono rimasto molto colpito.
Dopo tante puntate di Storie di Videogame, alcuni elementi e dinamiche comuni quando le cose vanno storte sono chiare: figure creative che hanno troppa libertà, idee iniziali fuori portata, scarsa esperienza imprenditoriale. Che idea ti sei fatto?
L’industria videoludica è meno strutturata di quanto siamo portati a pensare, ma questa è anche la sua magia. È una sorta di evoluzione inevitabile: capisci perché a un certo punto le aziende hanno messo dei paletti o perché devono fare una produzione seriale in cui 4-5 elementi di gameplay vengono aggiornati continuamente, pur cambiando asset, forma e narrativa.
Questo tipo di cose alla lunga porta effetti negativi: i numeri calano, per esempio, dopo anni di sfruttamento degli stessi elementi. È chiaro però perché venga fatto.
Dal punto di vista evolutivo del settore è comprensibile: sempre più persone giocano e per buttare fuori sempre più videogiochi, mantenere certi standard qualitativi e farlo velocemente da qualche parte devi diventare più settoriale e ordinato. Ci sono aziende che riescono a vivere una vita differente, mi viene in mente CD Projekt con i suoi alti e bassi.
È un’industria in cui tanti prodotti escono in maniera imprevedibile ed è anche il bello: è uno sforzo creativo costante, collettivo e dove anche quando c’è un’idea molto forte alla base, penso a The Last of Us, per realizzarla ci saranno da scalare le montagne. È sempre così, alla fine, ed è ciò che rende l’industria del videogame affascinante. Penso che se qualcuno provasse a fare “Storie di cinema”, sarebbe più difficile e lo potresti fare solo per pochi film.
Nell’industria del videogioco c’è quasi sempre una storia da raccontare, una difficoltà che è successa o un modo di fare le cose che non era previsto all’inizio.
Parafrasando le parole di Cory Balrog, è un mezzo miracolo che i giochi escano. Una volta disse che i giochi sono un casino fino al momento in cui non lo sono più.
Sì e ciò genera il peccato originale dell’industria, ossia il crunch. È già stato dimostrato che, entro certi limiti, è inevitabile avere un periodo finale in cui gli orari di lavoro eccedono quelli contrattuali. Questa cosa può raggiungere livelli disumani, ma è una situazione che interviene quasi sempre e vale, comunque, anche per altri progetti in cui la fase finale prevede un’accelerazione.
Un po' di giochi interessanti
Nei giorni scorsi ci sono stati il Summer Game Fest, condotto da Geoff Keighley, il Day of the Devs e la presentazione di Devolver Digital, in particolare.
Anziché portarti tutti i giochi presentati - sarebbe inutilmente lungo - ti lascio alcuni video di giochi che hanno colto il mio interesse. Vuoi per chi ci lavora, per come appaiono o per le meccaniche che promettono di avere.
The Callisto Protocol
Routine
Neon White
Metal: Hellsinger
Skate Story
The Plucky Squire
Time Flies
SCHiM
Giochi-piattaforma
Serie come Call of Duty stanno diventando sempre meno videogiochi e sempre più piattaforme. Lo stesso vale per tanti giochi online come Fortnite o Minecraft: giochi a cui accedono decine se non centinaia di milioni di persone ogni mese e che perciò diventano creature vive da mantenere, che assumono la forma che serve per esistere su più dispositivi e in varie versioni.
Non è un caso che quando Microsoft ha annunciato l'acquisizione di Activision Blizzard King, l'amministratore delegato Satya Nadella abbia fornito la sua visione di metaverso: "una raccolta di comunità e identità individuali ancorate a solidi franchise, accessibili su qualunque dispositivo".
E se ci pensi, Call of Duty rientra perfettamente - come World of Warcraft oppure Overwatch o Candy Crush - in questa idea.
In un'intervista rilasciata al Washington Post, Johanna Faries, general manager di Call of Duty, ha sottolineato che l'obiettivo di Activision Blizzard King è "esserci dove chi gioca ha bisogno e vuole che ci sia Call of Duty e assicurarsi che possano accedere al gioco che amano". In altre parole, esserci su tutte le piattaforme possibili: console, PC e mobile.
"Abbiamo una visione condivisa completamente nuova che ruota attorno sia a Modern Warfare 2 sia a come si relazionerà con il successivo lancio della nuova esperienza di Warzone", ha aggiunto Faries. "E ciò sarà basato sulla tecnologia e il motore grafico condivisi che li connettono in un modo mai fatto prima".
Un piccolo mondo con sopra l'etichetta "Call of Duty". Sarà un metaverso ben poco futuristico; ma è la cosa più concreta a cui le aziende stanno lavorando per incentivare le persone a rimanere connesse in un dato mondo virtuale.
Dalla nascita, Call of Duty ha venduto oltre 425 milioni di copie e ha ricavato più di 30 miliardi di dollari.
Honor of Kings arriverà in tutto il mondo
In questa newsletter ho spesso citato Honor of Kings: è il gioco mobile più giocato al mondo e quello che ha generato più ricavi; e continua a essere in cima alla lista dei giochi mobile che generano più ricavi ogni mese. Insomma: è un successo incredibile, eppure è disponibile solo in Cina.
Ora Level Infinite, che fa parte di Tencent Games, ha annunciato che in collaborazione con Timi Studios, che ha sviluppato Honor of Kings, lancerà il gioco in tutto il mondo entro la fine dell'anno.
Honor of Kings Coming to Players Across The Globe | Level Infinite — www.levelinfinite.com 2022 World Champion Cup to Feature Expanded Roster of International Teams.
I motivi, in breve:
la situazione in Cina, fra le restrizioni al gioco per le persone minorenni e l'attesa delle licenze che servono a gestire legalmente un videogioco, sta spingendo le aziende a puntare su meno prodotti e più grandi;
ciò implica puntare sul mercato internazionale e Tencent ha fra le mani un prodotto molto potente e intende usarlo per crescere all'estero;
Arena of Valor, adattamento occidentale di Honor of Kings che include anche personaggi di DC Comics come Wonder Woman e Superman, non ha minimamente avuto il successo di Honor of Kings.
Secondo i dati più recenti, Honor of Kings è giocato da oltre 100 milioni di persone nel mondo e, dal lancio, ha ricavato più di 10 miliardi di dollari. La Honor of Kings World Champion Cup 2022 metterà in palio 10 milioni di dollari.
In breve
Giochi:
Pokémon Go ha ricavato 6 miliardi di dollari dal lancio nel 2016
Bend Studio, creatore di Days Gone, ha annunciato che sta lavorando a una nuova proprietà intellettuale "che include il multigiocatore e che sfrutta i sistemi a mondo aperto di Days Gone"
"Gli YouTuber che svelano il lato oscuro di fare videogiochi" [Nathan Grayson, Washington Post]
Nintendo Switch Sports è stato il videogioco più venduto in Europa a maggio, secondo GSD. E i dati non includono le copie digitali vendute (perché Nintendo non fornisce tale dato)
Il costo umano del disastroso lancio di Fallout 76 [Sisi Jiang, Kotaku]
Ho giocato al primo simulatore della vita di Gesù Cristo e ho molte domande [Matteo Lupetti, Vice]
Ai Grammy 2023 saranno premiate anche le colonne sonore dei videogiochi
Aziende:
Savvy Gaming Group, sussidiaria del fondo sovrano saudita (Public Investment Fund) ha comprato l'8,1% di Embracer Group, gruppo svedese di cui fanno parte Gearbox, Milestone e Dark Horse. A gennaio Savvy Gaming Group ha acquisito FaceIt ed ESL e, più in generale, l'Arabia Saudita ha investito miliardi di dollari nei videogiochi in pochi mesi
Activision Blizzard King ha riconosciuto il sindacato che il reparto di Quality Assurance di Raven Software ha recentemente fondato. Ora è il momento delle negoziazioni
Lo sviluppatore dietro ad Abandoned per PS5 Blue Box ha ingannato i fan e sollecitato accordi commerciali in una chat "tossica" [Mark Delaney, GameSpot]
Esport:
È ricominciato il PG Nationals, campionato italiano di League of Legends
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