Quanto vale un videogioco
Ciao, sono Massimiliano Di Marco.
Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
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QUANTO VALE UN VIDEOGIOCO?
60 euro, potresti rispondere. O magari 20 o 30 euro se si tratta di un gioco distribuito a prezzo budget. Come stabilire, però, se tale valore è appropriato? Il tutto ruota attorno al valore percepito: una questione ben più ampia e complessa. Un articolo di Christopher Dring su GamesIndustry ha fornito qualche riflessione. Gli spunti sono recenti: l'annuncio della rimasterizzazione per Nintendo Switch di The Legend of Zelda: Skyward Sword (uscito originariamente su Wii) e la prossima uscita di Returnal, esclusiva per PlayStation 5. Il primo costerà 70 euro; eppure, è un gioco che, seppur verrà migliorato, ha molti anni sulle spalle. Il secondo, pur essendo una nuova proprietà intellettuale, costerà 80 euro. Una misura coerente con l'eterogeneità delle produzioni videoludiche è difficile da stabilire: Hades è un gioco bellissimo che ha una longevità potenziale di oltre 100 ore; eppure viene proposto a prezzo budget, per esempio.
Questa discussione segue almeno due filoni. Il primo: il valore di una proprietà intellettuale e la sua possibile svalutazione. In tal senso, Nintendo è l'esempio perfetto. Pochi mesi fa ha pubblicato la riedizione di tre giochi di Super Mario - Super Mario 64 (Nintendo 64), Super Mario Sunshine (GameCube) e Super Mario Galaxy (Wii) - in una raccolta speciale in vendita per un periodo limitato intitolata Super Mario 3D All Stars. Il valore storico di quei tre giochi è indubbio; quello del lavoro svolto da Nintendo invece no: la rimasterizzazione è stata molto superficiale. Eppure, non è mai stato in discussione che sarebbe stata venduta a 60 euro: perché fare altrimenti avrebbe comunicato l'idea che un prodotto videoludico di Super Mario potesse valere meno. (al 31 dicembre 2020, le unità vendute di Super Mario 3D All Stars erano 8,32 milioni). Gli utenti stessi si aspettano a loro volta che un gioco di Super Mario o della serie The Legend of Zelda valga 60 euro: perché negli anni Nintendo ha tenuto alta la qualità di questi giochi.
Il secondo filone è molto più soggettivo: quanto valore dare a un'esperienza che è più della somma delle sue parti. Ricordo che, in particolare, questo discorso ebbe luogo al lancio di The Order: 1886, un gioco per PS4 uscito nel 2015. L'unico contenuto disponibile è una campagna a giocatore singolo, che può essere completata in 7 ore. Come immagini, è facile valutare il rapporto costi/benefici di un gioco che dura 50 o 100 ore; diverso spendere 60 euro per 7 ore di gioco, per altro scarsamente rigiocabile. Quindi il valore di un videogioco è dettato dalla durata? Bisogna valutare l'esperienza videoludica come se fosse un prodotto da pescheria, un tot all'etto? Ci sono poi i tanti giochi mobile, che costano al massimo pochi euro (e moltissimi sono invece gratuiti), ma possono durare tantissimo. I servizi su abbonamento, come Xbox Game Pass, hanno aggiunto un ulteriore elemento: centinaia di giochi accessibili (sulla carta: nessuno ha davvero il tempo di giocarli) a 9 euro al mese.
L'eterogeneità dei prezzi dei videogiochi ha complicato la discussione attorno a quanto sia giusto spendere e, soprattutto, quale valore dare a un videogioco. Il termine stesso di videogioco rappresenta contenuti molto diversi l'uno dall'altro (basta che pensi alla differenza che c'è tra uno sparatutto come Counter-Strike e un'opera più concettuale come Everything).
Nel videogioco Everything, il giocatore può interpretare letteralmente qualunque cosa.
Il videogioco è in parte creatività: è il motivo per cui un nuovo gioco può essere meno piacevole di quello precedente. A quel punto, il valore percepito del nuovo gioco (se visto in proporzione al godimento ottenuto) sarà minore. Ma il videogioco è anche in parte tecnologia e un software moderno è tendenzialmente migliore di un software meno recente, almeno dal punto di vista tecnico. Quindi, in questo caso il valore percepito di un videogioco nuovo sarà superiore rispetto a quello precedente.
La domanda, quindi, è: come misurare il valore di un'esperienza che è sia creatività sia tecnologia (e sto semplificando tanto) e che - come un libro o un film o un brano musicale - può emozionare in modo diverso le eterogenee sensibilità delle persone e quindi risultare in una percezione altrettanto eterogenea? L'industria stessa, con le varie modalità di acquisto e di fruizione, se lo sta chiedendo, ma non è ancora giunta a una conclusione coerente.
A EPIC GAMES FORTNITE NON BASTA
Fall Guys è stato uno dei fenomeni videoludici del 2020. Può essere considerato una versione interattiva e colorata di "mai dire Banzai": un gruppo di utenti si sfidano lungo un percorso, rischiando di cadere frequentemente, scontrandosi a destra e a manca; vince chi arriva per primo al traguardo. L'irriverenza delle situazioni che si creano e l'intuitività del gioco lo hanno reso un contenuto molto in voga, soprattutto per le trasmissioni su Twitch e YouTube. Inoltre, è stato proposto come contenuto incluso nell'abbonamento PlayStation Plus (ad agosto, Sony ha specificato che è stato il gioco offerto con PS Plus più scaricato di sempre): nel giro di pochi giorni la sua popolarità è aumentata tantissimo. Ora, Epic Games, lo studio dietro a Fortnite e all'Unreal Engine, ha annunciato di aver acquisito Tonic Games Group, la casa madre dello sviluppatore di Fall Guys, Mediatonic. Non dovrebbe sorprendere e ti spiego perché.
Fall Guys è QUESTO.
Innanzitutto, Fall Guys è un gioco che sposa molto bene l'attuale posizione dei videogiochi prodotti da Epic Games e le sue case di sviluppo: tanto Fortnite quanto Rocket League (Epic ha acquisito lo sviluppatore, Psyonix, a maggio 2019) sono giochi online fruibili gratuitamente e con una solida comunità online; tendono facilmente agli esport, un altro rilevante fenomeno videoludico di marketing; e possono essere continuamente estesi attraverso nuovi contenuti. Fall Guys integra tutte queste caratteristiche.
La caratteristica che più integra riguarda la facilità di includere contenuti brandizzati nel gioco: costumi e altri accessori estetici sponsorizzati da grandi aziende. Per esempio, lo scorso agosto gli autori di Fall Guys invitarono le aziende a presentare delle idee per creare contenuti brandizzati. Hanno partecipato società come Walmart e KFC, per intenderci. Allora l'iniziativa era a scopo benefico: quanto pagato è stato dato in beneficenza, sebbene la visibilità concessa dall'iniziativa sia rimasta. (Alla fine ha vinto un gruppo di streamer, che ha donato complessivamente un milione di dollari a SpecialEffect).
Poco più che semi; ma che su un terreno fertile come la capacità commerciale di Epic Games possono germogliare e dare frutti importanti.
Fortnite, in tal senso, è un riferimento: come ho scritto nella prima puntata della newsletter, l'inclusione di contenuti brandizzati è un flusso di ricavi regolare ed espone gli utenti (di età più eterogenea di quanto sembri) a tante licenze. La capacità di Epic è stata renderla un elemento caratterizzante l'esperienza giocata di Fortnite anziché essere estraneo e quindi controproducente. Difficile stabilire, in assenza di numeri precisi, quanta parte dei ricavi generati da Fortnite sia derivata dagli accordi commerciali con le aziende; di certo, sono parte integrante dell'esperienza e quindi del motivo per cui tanti giocatori tornano a giocare e potenzialmente a spendere.
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